Le politiche commerciali e industriali stanno diventando strumenti sempre più strategici per influenzare l’andamento delle filiere produttive. Ma cosa accade quando tali misure, adottate per proteggere o rafforzare le industrie interne, innescano (controintuitivamente) effetti contrari su scala globale? Il caso delle terre rare, secondo lo studio approfondito del CEPR, offre una risposta sorprendente e istruttiva.
Le terre rare (REE, rare earth elements) sono un gruppo di 17 metalli dai nomi spesso sconosciuti al grande pubblico ma fondamentali per il funzionamento di dispositivi e tecnologie all’avanguardia. Batterie, motori elettrici, aerospaziale, sistemi laser e strumenti medici ad alta precisione: tutti dipendono da questi materiali. Le loro proprietà magnetiche, catalitiche e ottiche li rendono quasi insostituibili in molte applicazioni, soprattutto in settori allineati con la frontiera tecnologica globale.

Nel 2010, la Cina, all’epoca dominante su quasi la totalità dell’estrazione e della raffinazione mondiale di terre rare, decise di imporre pesanti restrizioni alle esportazioni. La decisione, motivata ufficialmente da esigenze ambientali, fu letta da molti analisti come una mossa geopolitica per rafforzare il proprio dominio su filiere globali strategiche. L’impatto fu immediato: i prezzi delle terre rare si impennarono, e la comunità internazionale si trovò improvvisamente esposta a una fragilità strutturale imprevista.
Questa crisi, però, innescò una risposta reattiva sorprendente da parte di molti Paesi importatori. Aziende giapponesi, europee e statunitensi, reagirono spostando rapidamente risorse in ricerca e sviluppo, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza d’uso delle terre rare, ridurne l’impiego o scoprire materiali alternativi.

Pare, infatti, che le industrie cosiddette “a valle”, quelle che utilizzano le terre rare come input, ma non le estraggono, situate fuori dalla Cina hanno sperimentato una crescita misurabile nell’innovazione tecnologica. Per comprendere la portata di questa trasformazione, i ricercatori hanno sviluppato una nuova metodologia che combina dati geologici, tabelle input-output dell’economia statunitense, prezzi storici e brevetti industriali.
Una delle conclusioni chiave è che l’innovazione è una risposta endogena (ovvero, proveniente dall’interno) agli shock dell’offerta. Quando un input critico diventa improvvisamente scarso o troppo costoso, le imprese reagiscono riorientando gli sforzi tecnologici. Questo fenomeno è particolarmente visibile nei settori altamente specializzati, dove la sostituzione diretta dei materiali non è una via praticabile nel breve termine.
Lo studio mostra che una tassa sull’export imposta da un fornitore dominante, come la Cina, può ridisegnare la geografia produttiva globale. Le industrie ad alta intensità di terre rare, così, tendono a ridimensionarsi nel Paese esportatore e a svilupparsi altrove, dove l’innovazione sopperisce all’assenza dell’input. In questo modo, l’effetto negativo dello shock viene mitigato, se non trasformato in opportunità.
Il caso delle terre rare, dunque, non è solo un esempio di vulnerabilità delle catene di approvvigionamento. È anche un potente promemoria di come le politiche commerciali restrittive, soprattutto quando applicate a risorse non facilmente rimpiazzabili, possano innescare profonde riconfigurazioni industriali a livello globale.