La pressione esercitata dai colossi automobilistici cinesi sul mercato europeo si fa ogni giorno più intensa. Marchi come BYD e le sue controparti stanno sfruttando un vantaggio competitivo difficilmente colmabile, mettendo in difficoltà l’intera filiera automobilistica del Vecchio Continente.
Il fenomeno, trainato dalla sovrapproduzione cinese, solleva interrogativi strategici e richiede risposte coordinate a livello europeo. L’allarme è stato lanciato apertamente dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti durante il G7 in Sudafrica: la capacità produttiva cinese in eccesso, non più assorbita dal mercato interno, viene riversata all’estero, con effetti devastanti sulle industrie europee.

Il settore automobilistico ne è un esempio emblematico. I costruttori europei faticano a reggere il confronto in termini di volumi, costi e tempistiche rispetto ai giganti asiatici.
Secondo il think tank europeo Bruegel, la transizione green dell’Europa dipende fortemente dalla rapida diffusione dei veicoli elettrici. Tuttavia, l’elevato costo di produzione e la scarsa disponibilità di batterie locali impediscono ai brand europei di offrire soluzioni economiche su larga scala. I produttori cinesi, al contrario, colmano questa lacuna e oggi rappresentano circa il 25% del mercato delle elettriche nell’Ue. Inoltre, stanno investendo massicciamente nelle catene di approvvigionamento europee di batterie e auto elettriche.

Il rischio, però, è che questa ondata di investimenti diretti da parte di Pechino porti con sé effetti collaterali rilevanti: concorrenza sleale, rischi per la sicurezza informatica (questa spesso utilizzata all’occorrenza come scusa), controllo su dati sensibili, dipendenza strategica a lungo termine e possibilità di ricatti geopolitici legati all’export di materie prime critiche.
Per Bruegel, l’Ue non può limitarsi a subire passivamente questa dinamica né può chiudersi a riccio. Serve invece una strategia di regolazione attiva, capace di incanalare gli investimenti stranieri all’interno di un quadro normativo che tuteli l’industria europea.
Gli strumenti esistono. Si possono citare dazi, regole sugli appalti, requisiti di localizzazione dei dati, norme di cybersecurity e incentivi legati a sostenibilità e innovazione. Ma finché i paesi membri resteranno disallineati, sarà difficile gestire in modo efficiente questa nuova fase industriale. La sfida non è bloccare l’ingresso della Cina nel mercato, ma disciplinarlo, trasformando una minaccia in un’opportunità regolata.