Ad aprile, il colosso cinese dell’elettronica e dei veicoli elettrici BYD, leader mondiale nel comparto delle elettriche e nome di punta nel Fortune Global 500, è finito al centro di una “tempesta operaia” che ha coinvolto due suoi stabilimenti produttivi situati in località strategiche come Wuxi e Chengdu. In risposta a tagli retributivi, declassamenti arbitrari e una gestione aziendale percepita come repressiva e opaca, migliaia di dipendenti hanno deciso di scioperare, bloccando le linee di produzione e dando vita a una mobilitazione senza precedenti per l’azienda.
Gli scioperi non sono stati semplici episodi isolati, ma hanno assunto le caratteristiche di una protesta coordinata e consapevole, innescando un’ondata di discussioni sullo stato dei diritti del lavoro in Cina. La scintilla è scattata dopo che BYD, subentrata a settembre 2023 nella gestione di alcune fabbriche precedentemente controllate dalla statunitense Jabil, ha iniziato a ridurre i compensi legati alla produttività, abolendo persino benefit simbolici come il bonus di compleanno da 30 yuan (circa 3,50 euro).

Il malcontento è esploso quando l’azienda ha tagliato la retribuzione a risultati, scatenando la reazione di oltre 1.000 lavoratori nello stabilimento di Wuxi, seguiti pochi giorni dopo da altri operai a Chengdu. Al centro delle rivendicazioni, anche la richiesta di chiarimenti su oltre 100 milioni di yuan lasciati da Jabil come fondo di compensazione per i dipendenti che non volevano continuare a lavorare sotto la nuova gestione BYD. Fondi che, secondo i lavoratori, sono misteriosamente scomparsi. Già nell’aprile 2024, gli operai di Wuxi avevano cercato di opporsi all’introduzione forzata di una settimana lavorativa di 40 ore. Il tentativo non aveva avuto successo, ma ha lasciato un segnale importante: i lavoratori BYD non sono disposti ad accettare passivamente condizioni sempre più penalizzanti.
Il sistema cinese dei salari minimi, tra i più modesti tra i paesi industrializzati, costringe molti lavoratori a ricorrere a straordinari o addirittura a un secondo impiego per sopravvivere. In questo contesto, il taglio degli straordinari e il divieto di attività lavorative extra imposto da BYD hanno rappresentato, di fatto, una strategia per spingere i lavoratori alle dimissioni volontarie, evitando così di dover pagare liquidazioni o indennizzi.

Quando i lavoratori hanno rifiutato di negoziare in piccoli gruppi o tramite delegati — temendo infiltrazioni, pressioni e intimidazioni — e hanno preteso un confronto pubblico e collettivo, l’azienda ha risposto prima con ferie forzate e poi con la repressione. A Chengdu, le autorità sono intervenute in maniera brutale: forze di polizia e reparti speciali hanno sgomberato i lavoratori e proceduto ad arresti, trasportando i manifestanti con pullman blindati.
La mobilitazione BYD, però, è solo l’ultimo esempio di un clima sociale sempre più incandescente. Anche aziende come Foxconn, gigante dell’assemblaggio tech, hanno assistito a ondate di scioperi per licenziamenti arbitrari, trasferimenti forzati e riduzioni di salario. Le recenti proteste nelle fabbriche BYD non sono un semplice episodio isolato, ma un segnale forte di un malessere profondo. Intanto, il brand si presenta nel mondo in forma smagliante. E ci mancherebbe.